Musica

Quasi vacillo nell’annoverare fra la musica le mie fantasie acustiche che accompagno alle fotografie panoramiche. Considero quella musicale verosimilmente l’arte per eccellenza, talmente connessa agli animi in un linguaggio universale da farsi la più suadentemente incisiva nel suscitare emozioni, sospensioni, meditazioni. Se l'ho frequentata assiduamente nei panni dell'ascoltatore, purtroppo non l'ho praticata da padroneggiarne decentemente la struttura; vagheggiare però le sensazioni assonanti con le immagini e più ancora con la coscienza esposta alle momentanee realtà delle quali le immagini – o i ricordi – non sono che care eco, m'è parso ad un certo punto congruo con il proposito di miglioramento dell’esperienza immersiva che si delineava.
Se albergassi mai fede che le mie suggestioni sonore fossero “vera musica”, negherei loro qualsivoglia commento nel convincimento che l'arte da se medesima saprebbe motivarsi ed esplicarsi, vieppiù quella per sua natura in intimo dialogo con i cuori al di sotto degli alfabeti; capendole però grezze sbozzature, mi si conceda di poter dedicar loro qualche frase illusa di rischiararne l'interpretazione.

Trazione a Oriente

Fin dalla fanciullezza avverto la fascinazione per le montagne e le valli, maggiore ove si radichino e custodiscano ben commisurate case smussate dal tempo, per quanto forti di sasso e di larice; recedo l’età al pensiero d'antichi e ombrosi sottotetti profumati di fieno. Non saprei – ora – indovinare quale fato m'abbia destinato in Italia, sfioro però lunghissimi fili, in risonanze sorprendenti fra gli alpeggi ossolani e quel che m’è dato percepire dei lontani himalayani, quanto si confondono, in fondo, gli aromi del fiorito sfalcio di giugno e dell'incenso celeste che s'avvita nel gompa.
Le altissime cuspidi dell'Asia polarizzano, affinano e rifiniscono minuziosamente gli asceti; l'Italia... Sottovoce, me la dicono essere una non troppo dissimile scuola.

Kastel

Estate in alpeggio, quasi a sera, seduto alla piega del declivio per contemplar la valle che vibra dei cento torrenti sobillati dal vento, il Sole s’è da poco sottratto oltre le creste occidentali e tutto, a iniziare dal basso e da lungi, s'azzurra. Sotto i palmi la roccia tiepida, le familiari capre indugiano da un lato, alle spalle la brezza indispettisce l'anta dello stabbio. Ligio al planetario moto affiora dal profondo l'ultimo dei rintocchi. Adesso bisogna levarsi in piedi, per intendere bene il primo saluto vespertino che trasvola i valloni, quindi il secondo che risale le riflessioni di parete in parete, di forra in forra… È il momento: di prendere un gran respiro e rispondere.
Poi perdersi nella perfezione...

Lamé in novembre

Assoluta immobilità, ovunque. La prima, sottile neve stesa sui macereti risucchia i suoni, il liquido specchio scuro ha fatto però lo stesso con lei, l'ha assorbita, l’ha dissolta, l’ha annegata contraendone il freddo; sicché la sua superficie, offuscandosi di gelida consistenza, trasmuta in un'immensa membrana di tamburo: strumento dello sciamano cosmico che, rimestando i vortici, sa intonare le acque con le stelle.

In rari frangenti ho potuto meravigliarmi dei suoni ad un tempo ancestrali e futuristici generati dai laghi che ghiacciano, talvolta percorrendoli con gli sci stretti, talaltra durante escursioni di primo Inverno; non ho avuta però l'opportunità di effettuarne soddisfacenti registrazioni audio. Motivo per il quale nel realizzare questa mia commistione sonora ho dovuto attingere dall’opera altrui, in particolare qui – per la traccia ambientale – da una pubblicazione di Jonna Jinton. A lei restituisco tutta l'autorialità dell'elaborazione audio/video, sperando che non abbia a dispiacersi.

Grand Oren

Non la nostalgia dell'infanzia nelle scintillanti navate dei fienili, non il fantasticare dell’età vigorosa all’alpe, non lo stupore dell’immobilità vibrante, ma la sola speranza che le dita afferrassero una pallidissima idea, di cantilena altalenante, di dialogo accrescitivo, di beneplacito dispensato, ha avverato il nuovo brano. Non l’immagine da evocare, ma la libertà di tentare. E quando infine ho pur dovuto battezzarlo, intriso com’era nel colore, non ho potuto che pensare ai prati più opulenti.

Rada a Ponente

Se nel mio sentire una qual tensione mi orienta dall’arco alpino all’himalayano come fossero magneti di noviziato, non posso trascurare che allo spirito, all’essere non concluso nel qui e ora, siano premurosamente indirizzate tutte le culture del mondo, anche all'altro capo. Come ignorare la terra prestata dalla discendenza? O la guarigione per liberazione nello sfondo eterico?
Ho immaginato un incontro, la festa che avrebbe potuto scaturirne se il motore delle imprese non si alimentasse di inesauste brame, se alla rada di ponente si fosse dunque andati con gli arciliuti e con le tiorbe invece che con gli archibugi e le alabarde, se la felicità di allargata sapienza avesse svaporato i timori e le saccenze.
Una chiosa strana ho messo in epilogo dell’esultanza, una citazione dalla più celebre pagina attribuita al patriarca dell’armonia, il kantor che forse a Lipsia raffinava l’apprendistato di Luxor; l’incontro non è stato lieto, siam chiamati a lavorarci.

Tête des Roéses

Roéses: ghiacciai… Specchi di luce per me più pregni di suadente malìa degli scogli sfiorati da Odisseo tenuto in lacci al suo naviglio. Li ho sempre contemplati come il luogo di un diverso vivere, pulito, attento, transitorio.
Appena sotto a un contrafforte incuneato a sostenerli ho dovuto far per una notte improvvisato letto del duro sasso, quanto scrutare in quelle ore nel lento scivolare del firmamento, nelle intrattenibili idee.

Piramide Vincent

La quota ha ragione del passo, lo vuole lento e cadenzato sul respiro impegnato a farsi profondo pur nell’inospitale aria gelida, misurato all’incedere del chiarore porpora e dorato che avanzandosi da oriente spande indaco sulle chine.
Come il granello a sé stante in un allungato rosario di cuori speranzosi della propria Margherita seguo la linea dei cordami che si destreggia tra le fessure e le voragini tane della notte; è prescritta l’attenzione.
Ai contrafforti del Balmenhorn abbandono la liturgia dei canapi, mi tenta e m’invita lo scintillante crine che si diparte in direzione del Sole sorgente, sottilissima e deserta traccia graffiata sul candore morbido; da qui la prudenza ha da centuplicarsi, bisognerà presagire e scansare ogni timido sorriso delle labbra dischiuse sotto il velo abbacinante, bocche svelte ad aspirare nella tenebra i granelli sciolti e incauti. Tale però è l’incanto dell’abbraccio con il mondo dall’orizzonte sempre più vasto che qualcosa impercettibilmente muta: la concentrazione s’appoggia all’istinto e libera i sensi, lo sforzo non esige più l’impegno della muscolare volontà, ma è l’energia di una quieta estasi a supplirvi con leggerezza.
Fino a quando più in alto non rimane che il blu del cielo e sull’ultima gobba gelata un arruffato nido di pezzuole nei cinque elementari colori di pura luce rassicura d’esser giunti: più oltre è concesso che s’involino solo i pensieri – e le devozioni sfilacciate dai tessuti danzanti nel vento.

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